Odessa: Il bazar dei ladri

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vanni-merlin
00domenica 11 giugno 2006 14:51
Il bazar dei ladri

A Odessa il più grande mercado d'Europa: 80 ettari di griffe in offerta a prezzi stracciatissimi fra contrabbando, tarocco e pezzi: «caduti dal camion»
11/6/2006
Marco Sodano


Armani, Sony, Christian Dior, Toshiba, Versace, Olympus, Tommy Hilfiger, Samsung, Dolce&Gabbana, Nikon. Il gatto Oblomov spalanca gli occhi gialli: in mezzo a questa babele del marchio mondializzato a prezzi da ultrasaldo lui è interessato alla tradizione, cioé una vecchietta che va a caccia di clienti reggendo una collana di pesci secchi infilati su un filo di ferro e attraversa incurante il labirinto di container buttati sulla pianura che un tempo era discarica. La nonna evita mucchi di firme altisonanti su cui si assiepano uomini e donne - jeans, camicie, pantaloni, abiti svolazzanti, sandali ciabatte scarpe, calze di lana, di naylon forse perfino di seta - non degna di uno sguardo la pubblicità di Versace che hanno appiccicato su una porta di ferro per suggerire che la biancheria intima offerta là dentro è di qualità raffinata. «Firmata», giura Sergei che urla ai quattro venti: «reggiseni, 15 grivna», tre dollari, «canottiere 10 grivna». Non c’è traccia di etichette, al tatto è roba inconsistente.
Tre dollari sono troppi, d’altra parte qui si tira sul prezzo per principio e Sergei ammette senza troppa difficoltà che la sua mercanzia è cinese, tutt’al più turca: «che pretendi a tre dollari?». Accanto i jeans costano 15 dollari, un abito dei migliori arriva a 60. «Cinese anche quello, non stare a ragionarci più di tanto».


Il campo delle meraviglie
Funziona così, il mercato del Settimo chilometro di Odessa. Il tolchok, la «calca», o anche «il campo delle meraviglie». Misera fiera dell’est dove un’umanità entusiasta si aggira sperando di sembrare - con due soldi - se non ricca non del tutto spiantata. Con i suoi 80 ettari è senz’altro il mercato più grande d’Europa: senza banchi né negozi. La maggior parte dei commercianti è sistemata in vecchi container a riposo impilati uno sull’altro, saldati o puntellati alla meglio e allineati lungo vicoli angusti. Due regole: per chi vende, pagare l’affitto ai proprietari dell’immenso bazar. Per chi compra, non far troppe domande sulla provenienza della merce offerta con tanta generosità. Capite quelle, il Settimo chilometro funziona da solo: c’è chi vende jeans a «venti grivna, è l’ultima moda dell’Italia e di Parigi». Sarà Versace? Difficile. E più avanti, dove e si promettono Chanel, Christian Dior, Dolce & Gabbana, Tommy Hilfiger, Lacoste il prezzo più alto supera di poco i 100 grivna, 20 dollari, ma una maglietta si può avere anche a sei o sette. Le targhette mentono, si fanno affaroni se non si è troppo attenti alle cuciture, alla qualità del tessuto o alla rifinitura. Poi c’è chi scavalca del tutto il problema. «Scarpe italiane» bandisce l’arruffapopolo Ruslov, che cerca di rifilarti certi mocassini con la punta aguzza per cui qui vanno matti ma in Italia chi li ha visti mai: vera finta pelle, «cinquanta grivna». L’ultimo grido. Ma ha anche altre sorprese, Ruslov: «Pellicce italiane» e qui si vola alto, sui 200 dollari. È il tarocco sublimato: non una copia di un oggetto che può sempre essere individuata per falsa. Un marchio inventato di sana pianta è quasi inattaccabile.


200 mila clienti al giorno
Non lo chiamano la «calca» per caso. Ogni giorno i minibus che parcheggiano di fronte all’ingresso vomitano dentro il Settimo chilometro almeno 200 mila persone. Arrivano da tutta l’Ucraina affrontando viaggi massacranti sulle strade rattoppate del paese, scendono dalla Russia.
C’è chi fa più di 500 chilometri, ma anche chi scavalca le frontiere di Polonia, Ungheria e Romania - l’Unione europea - per concedersi un giro di giostra in questa abbondanza di cartongesso. Le botteghe sono 16 mila, numero provvisorio perché il Settimo chilometro cresce di giorno in giorno e dietro ogni angolo c’è qualcuno che martella, inchioda, avvita, sega, salda, prende misure. Anche Yelena lavora nella calca «da tre anni. Però non mi posso permettere di affittare neppure un container». Gli spazi più economici, dice, si possono avere per 2000 dollari al mese ma c’è chi per le baracche di metallo e plastica appena più dignitose ne sborsa 6000. Così Yelena s’è procurata un carrello portavivande e disseta il popolo del mercato, tè e bibite assortite. Grida dal mattino alla sera: «Attenzione ai piedi. Birra, tè, Coca Cola».
Voltato l’ennesimo angolo, Armani e compagnia lasciano spazio a Toshiba, Samsung, Sony, Blaukpuntk, Olympus, Kodak: si apre la grande fiera dell’elettronica, quella più frequentata dalla clientela straniera. Che può assicurarsi un televisore da trenta pollici a 120 dollari. Una Playstation a 50 e meno, un lettore dvd scende fino a 30. Lavatrici e frigoriferi salgono raramente oltre i 150, telecamere e macchine fotografiche accontentano qualunque tasca: anche per 20 dollari i modelli più modesti. Imperdibile l’orgia di telefoni cellulari, nuovi e usati: dalle baracchette di plastica ai palmari dell’ultima generazione, sempre sotto i 100 dollari. Si può ottenere per 25 grivna, invece, una sim «sicura». Giurano che funziona in tutto il mondo e non chiedono i documenti: il numero di telefono sarà un po’ complicato però poi vai a intercettare le chiaccherate.


Economia globalizzata
Per spiegare i prezzi, Anatolij improvvisa una lezione di economia globalizzata: «Gli operai coreani guadagnano dieci dollari al mese. Non chiederti perché qui un televisore ne costa cento: chiedi nei negozi italiani perché ne pretendono mille. Odessa è porto franco, niente dogana». Non basta? «Il mare è grande, milioni di navi lo attraversano» e insomma ci siamo capiti. A Napoli si dice «caduto dai camion». Qui allargano le braccia. Insomma: il commercio è nato sul Mar Nero, anche la pirateria l’hanno inventata da queste parti, e non sarà un caso che nella mitologia pagana ladri e commercianti siano protetti dallo stesso dio, il Mercurio dei romani. Anche perché una Lacoste si tarocca, ma con un televisore come si fa?
Tutto è cominciato nel 1989, ultimo scampolo di Urss. Le autorità sovietiche deportarono un pezzo del mercato dal porto di Odessa fuori città, sperando di soffocarlo. Confinati a sette chilometri sulla strada per l’aeroporto: e da lì la calca ha preso il nome ufficiale. Poi, liberato dagli spazi angusti del porto, il mercato s’è inventato una seconda giovinezza, sui terreni del miliardario Viktor Dobriansky e di altri tre soci. Che garantiscono la sopravvivenza del Settimo chilometro versando una decina di milioni l’anno (calcolo in dollari) in tasse alle autorità, fino a oggi tanto è bastato. E non è un caso che questo mercato sia fiorito qui, poco prima della severissima frontiera europea, in una città che campa di traffici da millenni e dove il contrabbando è l’ipotesi più benevola: «con la dogana te la vedi tu».


Lo scherzo di Yushchenko
L’unico che è riuscito a mettere nel sacco il Settimo chilometro è il presidente ucraino Viktor Yushchenko. In campagna elettorale promise che avrebbe incoraggiato il mercato, il principale datore di lavoro della regione. Ottenuta la presidenza, però, s’è fatto un giro a Odessa e ha nominato una commissione fiscale: incaricandola di valutare se i 10 milioni incassati ogni anno dall’erario sono commisurati al volume d’affari. Per quel poco che si sa, gli ispettori hanno già stabilito che 20 milioni di incasso al giorno sono stimati per difettissimo. Il governo non vuole guastare i rapporti con l’Unione europea, nemico internazionale numero uno del tarocco e del commercio sommerso. Al Settimo chilometro fanno spallucce. Conclude Alexandri: «Odessa è riuscita ad ottenere il porto franco dallo zar e a mantenerlo anche quando comandava il Soviet». Addavenì Yushchenko, figurati Bruxelles.




da: www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200606articoli/6302gi...

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